mercoledì 14 luglio 2010

Bright Star: la lavandaia innamorata.



“Bright star, fulgida stella”, le diceva il poeta ammaliato dalla sua bellezza.

“Peccato che lei assomigliasse ad una lavandaia” diceva invece la Cornacchia.

Bright star è l’ultimo film della regista donna per antonomasia Jane Campion (Sofia Coppola la metto al secondo posto mentre non considero Katrin Bighelow perché fa film che esaltano maschi desiderosi di spari, rapine e surf, nonostante gran rispetto per Point Break, voglio precisare).

Questa donna classe ‘54 ci ha deliziato con pellicole che forse davvero solo ha spiccato senso del femminino può capire. Janet di “Un angelo alla mia tavola,” quella ragazzotta ingombrante dal ciuffo di capelli rossi che Diana Ross avrebbe molto desiderato e i denti mangiati dagli zuccheri ha una rivalsa, una salvezza da una sbagliata diagnosi di schizofrenia: la poesia.

Ada da “Lezioni di piano” ad un burbero meticcio che troppo facilmente si spoglia ma che le fa scoprire un amore sano e dimenticare l’ira di un marito che si fa consigliare da due gattare neozelandesi. La nostra Jane ci ha fatto assaporare che anche in postacci umidi inospitali e di fondamentale ignoranza si può avere poesia. E amore. Non sono belle Janet e Ada, la prima è diversa e la comunità la bolla come pazza, la seconda non parla e quindi la comunità la bolla come pazza. In “Bright Star” Fanny, la fulgida stella del titolo, non è bella ma è normale, alla comunità non frega niente di lei. Fanny sembra una ventenne che piuttosto che andare all’H&M si fa da sola i vestiti e finchè non incontra colui per il quale si trasforma in una melodrammatica donnetta dal pianto facile, non fa che parlare di corpetti, ricami, imbastiture e non nasconde che è pure brava.

Che saccenza. Che poi diciamo la verità, faranno molto Jane Austen e romanticismo nella campagna inglese, ma questi vestiti stile impero che tanto decanta la nostra Fanny, non esaltano al massimo la sua figura come dire, importante.

Per tutto il film la vediamo ciondolare trascinando i poveri fratelli in passeggiate e costruzioni di colonie di farfalle. La presunzione del primo quarto d’ora si trasforma in seguito in puro servilismo quando incontra il suo bel poeta dal pastrano da rammendare e dal sorriso che tanto amavamo noi femmine al liceo . E qui, tanto di cappello al nostro caro John Yeats dai connotati di Ben Whishaw (gia visto ne “Il profumo”) che con grande maestria seduce e si innamora a sua volta della nostra modista gravida di passione ma che poi ovviamente dovrà lasciare per ovvie questioni.

Il mondo di Fanny viene creato solo dall’arrivo delle parole magiche di un letterato, la bellezza, i silenzi carichi di emozione, la gratitudine per le piccole cose della vite le scopre solo quando pensa a lui. Lei non le ha dentro, lei sarebbe solo una sarta con gusti discutibili (vestito rosso con collare vampiresco).

Janet e Ada ce l’avevano dentro questa passione per la vita e per la consapevolezza che c’è qualcosa di meglio, Fanny rimasta da sola ritorna ad essere quella che era, per fortuna senza arroganti corpetti. E la poesia? La troviamo dopotutto nelle parole indiscutibilmente alte di Yeats, nei prati viola, nelle camere bianche di fine ottocento, negli scricchiolii del legno, nei baci e nelle lacrime, nelle preziose lettere scritte ad inchiostro strette al petto, nei violini che sottolineano sguardi e profili seminascosti da cappelli di paglia, così cari a Jane Campion.

Peccato per la lavandaia.

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